Nei covi di tufo tra santi e briganti

Il modo più facile di vedere il tempo, per chi non può contarne che una piccola parte, è attraverso la sua incessante opera di trasformazione; flemmatico guaritore delle umane aberrazioni, il Tempo modifica luoghi, sfuma contrasti, attutisce dolori. A distanza di un secolo e mezzo, una palude malsana diviene un paesaggio da fiaba, una via malfamata un’escursione da domenica, il ricordo dei briganti una piacevole suggestione. Almeno agli occhi di chi, quei briganti, li immagina come i burberi scagnozzi di Gianloreto Bonacci, la cui efferatezza era dovuta al “tradimento di donna bella ma infedele”; come dire, in qualche modo, giustificabile.

I romitori del Fiora, una breve tappa lungo il ben più lungo “sentiero dei briganti”, che si estende per circa 100 km tra i boschi e laghi della Tuscia, sono due piccoli squarci su un mondo perduto, in cui si ha la confortante sensazione di immaginare il pericolo senza correrlo. Qui il passato oscuro della Maremma si confonde con quello, più lontano, di preghiera e devozione (ma di altrettanti stenti e privazioni): il passato dei monaci eremiti del XIII e XV sec., che nelle pareti di morbido tufo avevano trovato la loro via per il cielo. Il tratto del cammino è l’ultimo, che attraverso la Selva del Lamone giunge a Vulci e prende il nome dal brigante Domenico Tiburzi, malvivente dall’animo nobile vissuto nella seconda metà del XIX secolo.

L’insediamento rupestre visto dal fiume

Il complesso più grande e articolato è quello di Ripatonna Cicognina, sul corso del fiume Olpeta, nelle immediate vicinanze della sua confluenza nelle acque del Fiora. Una cavea rocciosa dorata dal sole si affaccia sull’ansa del fiume, dove l’opera umana e quella naturale si puntellano e si completano a vicenda; all’interno, un alveare storto scavato su tre livelli in cui vita e morte si sono avvicendate per decenni.

Alcuni ambienti del romitorio

Più raccolto e intimo, oltre che più antico, l’eremo di Poggio Conte si svela invece soltanto dopo una passeggiata di circa un’oretta lungo le rive sabbiose del Fiora. Giunti nel bosco, un percorso con scalette e passerelle protetto da staccionate lignee conduce a una alta cascata, un rivolo che dalla roccia si perde nella luce umida e verde. Subito sopra la cascata i resti di una chiesina, annunciata da un oculo strombato che rende facciata la nuda roccia. All’interno pochi fiotti di luce che filtrano dalla parete d’ingresso svelano a poco a poco i colori, ancora incredibilmente vividi, dipingono crociere e ritagliano capitelli. Lo spazio è poco, ma la fierezza da cattedrale.

Una ipotesi affascinante vuole che i primi monaci ad essersi insediati lungo le forre del Fiora fossero esuli greci e armeni sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste, che avrebbero qui ritrovato (e ricreato) i paesaggi rupestri a loro cari e familiari. Capitoli diversi dello stesso libro si alternano e si rimescolano in questo tratto della bassa Maremma; un condensato di esperienze umane e storia locale che hanno lasciato la loro traccia nella pietra lisciata, nei colori sbiaditi e nell’aria pungente di un pomeriggio di tardo autunno.

*Le indicazioni topografiche dettagliate per chi volesse percorrere questi sentieri sono contenute nei link all’interno del testo.

La geotermia, gli Etruschi e le formiche

Un suolo fumante da cui sgorgano acqua calda e bolle di fango agisce come un magnete per uomini e fantasie di ogni tempo. Quelle dei curiosi del ventunesimo secolo, ma anche quelle di chi, nella valle del Cecina, da epoca remota ha messo a dimora diavoli, raccontato prodigi e costruito impianti termali. L’approccio “ufficiale” a questi luoghi non può non passare dal parco delle Biancane e dal museo di Larderello; ma per chi si addentra nella valle con intenti vagabondi, disposto a lasciarsi portare dalle pieghe della strada e dai rari cartelli marroni, tra le nuvole di vapore bianco si svelano gradite sorprese.

Il sentiero delle fumarole presso Sasso Pisano

Il sentiero delle fumarole presso Sasso Pisano

Poco fuori dal paese di Sasso Pisano i segnali conducono ad una zona di fumarole affacciata direttamente sulla statale.  Come nel parco di Monterotondo, un sentiero ad accesso libero corredato di qualche pannello esplicativo si arrampica sulla collina tra sbuffi di vapore, concrezioni giallastre e cespugli di erica; percorrendolo fa compagnia il borbottio del fango che tradisce la propria presenza subito sotto la superficie del suolo.  Superata la zona di fumarole il sentiero continua, per ricongiungersi ad un anello più lungo che raggiunge le Biancane.

Continuando lungo la strada, a guidarci è la toponomastica: seguendo l’indicazione “Il bagno” si giunge infatti a un luogo dove, in virtù della sorgente di acqua termale, passato e presente camminano a braccetto. Prima si incontrano delle piccole piscine naturali, accessibili facilmente dal sentiero, e poco oltre, al di sotto di una apposita copertura, si estendono le due aree scavate di un grande complesso termale e sacro in uso dal III sec. a.C. al III sec. d.C. L’area archeologica è recintata e non aperta al pubblico, ma costeggiandola si distinguono le colonne del porticato, i muri in grandi blocchi di pietra e le vasche rivestite di cocciopesto (qui è possibile scaricare una brochure).

L'area archeologica in loc. Il Bagno, con i resti delle terme etrusche e romane

L’area archeologica in loc. Il Bagno, con i resti delle terme etrusche e romane

Tutto intorno l’area è curata a prato,  con comode aree di sosta  e tavoli per picnic. Per arrivare, dopo aver deviato dalla strada asfaltata (SP49), bisogna fermare l’auto all’altezza della prima colonica e scendere nel sentiero chiuso da un cancello (ma con passaggio pedonale accessibile) sulla destra.

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Procedendo in direzione di Pomarance sulla SR439, il panorama si apre e sullo sfondo spunta la massa bianca e rassicurante della Rocca Sillana,  ben visibile da tutti i colli circostanti. Oltrepassato Montecerboli sulla sinistra si scorge l’inizio di un sentiero: è la via che conduce all’eremo di San Michele alle Formiche, i cui ruderi sono ben visibili in alto, sulla vetta del colle di Spartacciano. Anche qui, il tempo e l’acqua termale hanno stratificato leggende, fede e speranze.  Dell’eremo costruito alla fine del XIV secolo dai monaci celestini restano solo pochi tratti di muro diroccato, ma il fascino del nome e della storia a cui è legato si imprimono bene nella memoria: le formiche sono quelle (alate!) che ogni anno, sul volgere del mese di settembre, si sarebbero riunite sulla campana dell’eremo finché questa non fu trasportata a Pomarance nella torre del Marzocco, nel XVIII secolo. Da quel momento anche le formiche si sarebbero spostate, nella speranza di riuscire, un giorno, a rimettere la campana al suo posto. In Italia sono diversi i santuari legati alle formiche, tutti dedicati a san Michele o alla Vergine: il periodo in cui le formiche alate sciamano, infatti, coincide grossomodo con quello in cui ricorrono la celebrazione dell’arcangelo (il 29 settembre) e la natività della Vergine (l’8 settembre).

Il panorama della val di cecina dall'eremo, con la rocca Sillana e le grandi torri di raffreddamento delle centrali geotermiche

Il panorama della val di cecina dall’eremo, con la rocca Sillana e le grandi torri di raffreddamento delle centrali geotermiche

Sotto il poggio, invece, lungo il corso del fosso Radicagnoli, le propaggini del bosco abbracciano le rovine di un edificio termale, le cui pareti scrostate rosse e blu fanno capolino tra la vegetazione. Una locanda e una piscina, divise dall’acqua e unite da un’arcata coperta che riparava dal freddo e dall’indiscrezione chi sgattaiolava dalle terme alla propria camera. Non voluttuoso luogo di piacere, ma di incontro tra miserie e malattie, queste terme (note già da epoca romana e usate nel periodo di vita del soprastante monastero) furono a lungo meta di malati di lebbra, piaghe e artrite.

Il passaggio coperto sul torrente che conduceva dall'albergo alla zona termale

Il passaggio coperto sul torrente che conduceva dall’albergo alla zona termale

Nell’ottocento proprietario dell’edificio fu il conte eponimo del centro più importante della zona, De Larderel, che ne curò il restauro, finché nel ventesimo secolo il complesso cadde completamente in disuso.

Ma ancora una storia, di cui oramai sfuggono i dettagli, si nasconde alle pendici del poggio, poco distante dalle terme: una brevissima deviazione dal sentiero, ben segnalata con l’indicazione “Pozzo della campana“, conduce ad una cascata del torrente. Dopo un breve salto l’acqua si tuffa in una pozza molto profonda, laddove una campana, inghiottita dalla voragine, lascerebbe ancora udire i suoi rintocchi a chi si bagna in quelle acque. Magari una campana sfuggita dalle zampe di una formica alata, che la stava portando via…

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A Palestrina, nello scheletro della città

Da Palestrina si vede il mare. È il mare della costa latina, che luccica in fondo al panorama, dove il cielo incontra la striscia untuosa e grigia che abbraccia le cupole della Capitale. Si fronteggiano, il mare e la cittadina, e insieme non si possono guardare.

Palestrina è uno scheletro possente vestito dei secoli passati. Si sale dai piedi, con delle comode scale mobili che impediscono di percepire le prime balze del pendio, ancora miste di asfalto e di verde. Le vie e le case si accomodano sopra di noi, ordinate, quelle dietro messe sopra, come nei disegni dei bambini: sono disposte sulle terrazze che salgono alla cima del monte Ginestro. Immoti, ci sopportano gli incombenti muri grigi che abbracciano la collina, un puzzle di forme irregolari che si completano vicendevolmente; impossibile non illudersi di respirare la stessa aria di chi ha calcato quella via nei secoli passati, forse col fiato sospeso, forse intimorito, magari con il pensiero fisso a ciò che gli avrebbe risposto la Dea.

I muri di sostegno dei terrazzamenti del santuario della Fortuna Primigenia, in opera poligonale e opera incerta

I muri di sostegno dei terrazzamenti del santuario della Fortuna Primigenia, in opera poligonale e opera incerta

La città medievale si insinua come un rampicante sulle vestigia del grande santuario ellenistico dedicato a Fortuna: allora come oggi, dal foro (oggi piazza Pierluigi) si ascendeva verso il santuario vero e proprio, attraverso un sapiente gioco prospettico di rampe, fronti porticate e affacci scenografici sulla valle, sempre pronta a sorprendere chi, distratto dal suo percorso sacro, avesse osato rivolgere in basso il proprio sguardo. Per noi la salita avviene attraverso una strada che fiancheggia i muri, e nel santuario si entra dall’alto; ma i muri si capiscono davvero solo sulla via del ritorno, quando sovrastano la punta del nostro naso rivolta all’insù, e sopra c’è solo cielo.

La "terrazza degli emicicli" del santuario

La “terrazza degli emicicli” del santuario

Oggi in corrispondenza dell’ultima terrazza, quella che ancora ospita l’antica cavea teatrale che completava il santuario, c’è il palazzo Barberini; dalla facciata spuntano le basi del colonnato che correva lungo il gradino più alto, nel mezzo dell’orchestra si accomoda un bel pozzo secentesco. Eppure l’insieme non disturba, l’archeologo purista tace e per un attimo gode a giocare nel sole di quel cortile raccolto, sullo sfondo della scena disegnata dalla natura, con lo stesso profilo, in tempi remoti.

La cavea dell'ultima terrazza trasformata in cortile del palazzo Orsini

La cavea dell’ultima terrazza trasformata in cortile del palazzo Barberini

Dentro il palazzo, adesso museo archeologico, si cela la testa dello scheletro. Il nucleo del muro circolare della tholos di Fortuna, che si ergeva alla sommità della cavea, è ancora lì; intorno a lui si stringono i resti del passato, i fasti delle decorazioni pavimentali, il luccichio dell’oro e del bronzo, i volti austeri e le vesti svolazzanti delle sculture di marmo che hanno sempre abitato quel luogo. Ed è qui che Palestrina ci regala l’ultima sua fantasia: un viaggio in volo sul Nilo, dalla foce alle sorgenti, sul percorso tracciato dalle tessere luccicanti del mosaico con paesaggio africano.

Il mosaico a soggetto nilotico proveniente dall'area del foro

Il mosaico a soggetto nilotico proveniente dall’area del foro

Una mappa popolata di animali e creature fantastiche, di piccole scene e paesaggi inondati di luce in cui perdersi, un racconto disegnato narrato dalla voce del tempo.

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Palestrina si trova a circa 45 chilometri da Roma e si raggiunge comodamente in auto. Con il biglietto di 5 euro del Museo Archeologico si visita anche l’area archeologica del santuario (info http://www.polomusealelazio.beniculturali.it/index.php?it/228/museo-archeologico-nazionale-prenestino).

La “Forza” della natura

“Se ‘un si va, ‘un si vede”. Fedele al proprio motto, il sentiero maremmano di Tracce ha deciso di concedersi qualche deviazione al di là dei confini del blog, indulgendo a saltuarie incursioni nei luoghi che hanno lasciato un segno più profondo; con questo post si inaugura una nuova categoria, Fuori Traccia, una finestra che ogni tanto aprirà sulla luce di un lido lontano.

 

La traversata per raggiungere le Skellig è breve, ma l’Atlantico è oceano, lo sa e ama ricordarlo a chi osi solcarne la superficie; bisogna farsi piccoli, per arrivare alle Skellig, chiedere il permesso all’acqua e alle rocce, rispettarne il fragore e magari patire anche un pochino. Allora ti concedono di essere guardate, due coni aguzzi che escono dalla bruma, ti lasciano assistere alla magia del sole che satura i verdi e delle nubi che li spengono all’improvviso.

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Small Skellig, la più piccola delle due isole, con la sua colonia di migliaia di sule. Qui l’approdo non è consentito.

L’approdo è un salto in sincronia con la risacca, poi uno scoglio scivoloso e una fila di scalini: il vento taglia le parole, e ancora frastornati, col naso che guarda la punta dei piedi, si comincia a salire. Intorno solo spruzzi, ali, richiami, incuranti della sottile colonna di bipedi, oggi come allora incappucciati, che si arrampica piano piano.

La scalinata che conduce alla cima dell'isola

La scalinata che conduce alla cima dell’isola maggiore, Skellig Michael

I gabbiani fieri, le sule dal petto abbagliante, le gazze di mare si lanciano dal tratto di scogliera più alto e dritto, dimostrano tutto il loro coraggio ai piccoli che aspettano il pranzo; e la testa gira in un senso di vertigine, spezzato dal pungente odore di guano che toglie ogni dubbio sulla realtà di quello spettacolo.

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Da sinistra, in senso orario: gabbiano tridattilo (Rissa tridactyla), gazza marina (Alca torda), mugnaiaccio (Larus marinus).

Salendo sul fianco di Skellig Michael (Great Skellig) gli scalini di cemento lasciano presto il posto a un sentiero in terra battuta e ad altri scalini, di pietra, limati da piedi leggeri e mangiati dalla salsedine. E qui si entra nel mondo più piccolo e discreto delle puffin, le pulcinelle di mare.

Pulcinella di mare (Fratercula arctica)

Pulcinella di mare (Fratercula arctica)

Piccole, goffe, con il muso da clown; fanno il nido in terra, nelle balze coperte di erba, e quando si devono tuffare ci pensano bene, sembrano contare prima fino a tre. Non volteggiano con le ali ferme e spiegate, fanno fatica e quando tornano su col becco pieno di pesci luccicanti si tira un sospiro di sollievo. Luglio è il periodo della riproduzione per questi volatili, che per tutta l’estate nutrono i piccoli nascosti nei nidi.

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Pulcinella di mare (intimità rubata)

Al termine della salita, sulla punta di Skellig, si svela il motivo di quel viottolo verso le nuvole: un gruppetto di igloo di pietra, abbastanza tondi per resistere al vento, abbastanza scomodi per ispirare una strenua preghiera. Sono i nidi dei monaci cristiani che dal VI sec. al XII hanno vissuto qui, sopravvivendo al mare, al gelo, alle incursioni vichinghe.

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Le celle del monastero sulla cima di Skellig Michael. Sullo sfondo Small Skellig

Passati i secoli, passati i monaci, gli uccelli sono ancora qui: Skellig Michael è riserva naturale integrale e sito ritenuto patrimonio dell’Umanità, protetto dall’Unesco. Un santuario della natura se non più della fede, in cui solo chi prenota per tempo, e per tre ore soltanto, può osare mettere piede. A meno che non sia un guerriero Jedy alla ricerca di sé…

Due fotogrammi del film "Star wars - the Force Awakens"

Due fotogrammi del film “Star wars – the Force Awakens”

L’oasi WWF di Bosco Rocconi e Roccalbegna

Pensavamo di andare in montagna, e invece la strada per Bosco Rocconi scende. Scende poco fuori dal paese di Santa Caterina (per chi viene da nord) e subito diventa bianca, mentre ai lati, dietro le piante, all’improvviso si impennano brulli scogli di marmo rosato; mentre la valle si restringe e la quota si abbassa, a sinistra fa capolino il letto, secco e acciottolato, di un accora sottilissimo Albegna.

La valle in cui si estende l'Oasi

La valle in cui si estende l’Oasi

L’ingresso all’Oasi è ai piedi della rupe più grande, la prima attrazione dell’area; è qui infatti che nidificano i falchi, il Lanario e il Pellegrino, che perlustrano la rocca seguendo i loro invisibili confini. I rapaci sono il principale motivo dell’esistenza dell’Oasi, nata proprio per salvaguardare un territorio rimasto selvaggio e poco toccato dall’intervento dell’uomo.

La prima tappa della nostra esplorazione è una brevissima arrampicata fino all’osservatorio nascosto proprio di fronte alla rupe dei falchi: qui è piazzato un cannocchiale, che ci svela indiscreto i segreti del nido e della cova. Il silenzio e il vento raccontano l’inaccessibilità di quelle pareti e il privilegio di poterne essere ospiti fugaci; lo sguardo affonda sulle cime degli alberi e rimbalza verso il cielo.

La rupe dove nidificano i falchi

La rupe dove nidificano i falchi

Dopo la presentazione al falco, Sonia, appassionata custode guardiana del luogo, ci guida nella passeggiata “lunga”, quella che permette di toccare tutti gli ambienti che la valle racchiude. Lungo il corso del torrente Rigo, affluente fantasma dell’Albegna, si passa infatti dai boschi ai prati, dagli stagni alle radure, dalla macchia alle spiagge del fiume.

Dall'alto, in senso orario: anemone bianco, anemone viola, elleboro, orchidee selvatiche

Dall’alto, in senso orario: anemone bianco, anemone viola, elleboro, orchidee selvatiche

Il bosco è formato prevalentemente da querce; a terra uno spudorato ricamo rosa e bianco di ciclamini e anemoni rallenta ogni passo, e l’attenzione si frantuma in tante piccole scoperte. Le orchidee selvatiche, le ranocchie che ti guardano, i falchi che girano intorno al loro posatoio preferito, il gorgoglio del fiume sempre più vicino.

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Quando arriviamo alla confluenza del Rigo con l’Albegna è ora di fermarsi un po’; l’acqua è limpidissima e scivola sui roccioni rossi per sparire in pozze e piscinette. Dal fiume il percorso risale attraverso un tratto pianeggiante ombreggiato da pioppi, tra ciclamini, giacigli di cinghiali e carbonaie, forse l’unica traccia davvero umana in questo luogo.

Due tratti del corso del fiume Albegna

Due tratti del corso del fiume Albegna

Il sentiero si chiude ad anello e, dopo un’ultima salita, conduce di nuovo all’ingresso dell’Oasi. Lentamente si riemerge dalla valle, il verde lascia il posto al giallo, al grigio e al cielo; un rapace ci taglia in picchiata la strada e controlla che stiamo andando via per davvero. “Qui è mio, eh?“…

Tornati sulla statale, una breve sequenza di tornanti conduce a Roccalbegna. Già da lontano il borgo medievale si presenta con le sue due rocche (il Cassero Senese e la Rocca Aldobrandesca), prosecuzione artificiale dei due spuntoni rocciosi tra cui è incuneato il paesino.

Roccalbegna vista dalla strada

Roccalbegna vista dalla strada

Soltanto i musi grotteschi della fontana vicina al ponte sull’Albegna spiano interdetti i nostri passi tra le stradine, mentre, per una volta senza guida e senza tappe prestabilite, ci attardiamo sospesi nel tempo immobile di un insolito lunedì di ferie.

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Per chi volesse visitare l’Oasi di Bosco Rocconi è necessario prendere contatto telefonico direttamente con i guardiani del parco e fissare il giorno della visita. Il numero di riferimento per le informazioni è 320/8223972, da qui sarete reindirizzati direttamente ai guardiani del parco.

Il castello, gli etruschi e il mare

Tre fermate, tre bandierine per un itinerario insolito che scende dalle colline al mare, attraverso la grande spianata che fu del Lacus Prilis; un itinerario che si avvolge e si srotola lungo le direttrici che seguono e segnano i confini dei campi e i fianchi delle colline. Una via che abbiamo percorso a ritroso, vagando di cartello in cartello, e che si è conclusa con la soddisfazione che solo le imprese cominciate senza troppa aspettativa possono regalare. Che vogliate partire dalla storia o dalla natura, lungo l’itinerario troverete tre pertugi attraverso cui spiare la Maremma in una delle stagioni che più le rendono giustizia.

Il castello è il piccolo borgo di Tatti. Aggrappato alla sua collina, ai margini settentrionali della grande pianura, vicino a Montemassi e Roccatederighi, attraverso la foschia “guarda” Sticciano e il mare.

L'ingresso dalle mura, la piazza principale, uno scorcio

L’ingresso dalle mura con il torrione sulla destra, la piazza principale, uno scorcio

Delle mura del castello, ricordato nei documenti già dal IX sec., resta il ricordo nelle porte e nell’andamento delle case, strette in un abbraccio tondo e collegate le une alle altre da terrazze, vie coperte, scalette. Le porte di accesso sono due e al centro del borgo si trova la piazza principale, con la chiesa di S. Maria Assunta e la cisterna.

L'affaccio sulla piazza del paese

L’affaccio sulla piazza del paese

Gli Etruschi sono quelli che gravitavano attorno alla ricca città di Vetulonia e che hanno scelto come ultima dimora la necropoli di S. Germano, dove adesso a stento si distinguono i tumuli a due passi dai filari. Oggi nell’area sorge l’azienda vinicola Rocca di Frassinello, che sui cartelli marroni è sempre la prima indicazione. Seguendoli e costeggiando per un tratto l’Aurelia su una strada bianca si giunge al cancello dell’azienda: da qui la strada prosegue per poche centinaia di metri, segnalata con indicazioni verdi, fino all’area archeologica. Il percorso include soltanto tre dei trenta tumuli individuati, di VII e VI sec. a.C.: restituiti in tutta la loro dignità, ben protetti e segnalati, si allargano sotto il sole che oramai invade le camere senza copertura.

I tumuli, con la volta crollata all'interno

I tumuli, con la volta crollata all’interno

Il mare, infine, è quello discreto delle Marze, quello dall’altra parte della duna. Quello di cui si può sentire anche solo il rumore restando nel sentiero al di qua dell’argine di sabbia, al riparo dei ginepri e sotto i pini dove stride la ghiandaia e anche le farfalle fanno i picnic.

La ghiandaia (Garrulus glandarius)

La ghiandaia (Garrulus glandarius)

Una farfalla intenta a "mangiare"

Una farfalla intenta a “mangiare”

La chiesina di S. Croce a Monterotondo Marittimo

Lungo la strada per Monterotondo Marittimo (la ss 439), all’altezza della località Filetta, un cartello di legno scritto a mano indica l’imboccatura del sentiero per raggiungere la chiesa di S.Croce. Il primo tratto di strada è piano, largo abbastanza da poterlo percorrere in macchina, ma il bosco invita a godersi fin dall’inizio la passeggiata e il silenzio, e in un’oretta di cammino si raggiunge la meta.

Il sentiero per la chiesa di S. Croce

Il sentiero per la chiesa di S. Croce

La nostra destinazione è la chiesina che sorge, ad un’altezza di 732 m, sul monte S. Croce; il sentiero per raggiungerla si snoda in una luce verdolina, filtrata dal bosco di lecci e aceri, le cui foglie stellate punteggiano di giallo il terriccio e il muschio. Il colore intenso dei ciclamini buca l’ombra qua è là.

Una foglia di acero campestre

Una foglia di acero campestre

La cappella, piccola e raccolta, sorge su un pianoro; stando alla documentazione storica, è tutto ciò che rimane di un romitorio di Agosiniani collegato al convento sorto vicino a Gerfalco nel 1323 e soppresso, con tutti gli ordini e gli enti religiosi, dal Granduca Pietro Leopoldo a fine Settecento. La chiesetta, divenuta in seguito privata, ancora oggi è meta in festività particolari di pellegrinaggi e feste di fedeli. La sua struttura così semplice e composta si inserisce perfettamente nell’ambiente circostante: il paletto della porta cigola, una lama di luce penetra e sull’intimità dell’unica navata coperta a botte. Richiudiamo subito, ché sembra di disturbare.

La facciata della chiesa

La facciata della chiesa

Ma, come spesso accade nelle nostre girate, è anche stagione di funghi. Sembra che attraversino la strada all’improvviso, famigliole a passeggio col cappello della domenica: cappelli vermigli, le russole; cappelli di velluto, i porcini; berretti di lana grezza, le vesce.

La varietà di funghi sul sentiero

La varietà di funghi sul sentiero

Nell’immagine, dall’alto in senso orario, russole, Mycena rosea, Lycoperdon perlatum (vescia) e Entoloma incanum. Nel bosco abbondano anche i porcini: ma, ahinoi, anche stavolta non sono di quelli buoni da mangiare…

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Una famigliola di Boletus luridus

 

Dal bosco al mare: girando attorno a Cala Violina

Per chi vuole andare a Cala Violina l’accesso al mare è piuttosto veloce: 15 minuti attraverso un sentiero largo nel bosco (che pure riserva qualche sorpresa), un ripido balzo e la spiaggia si apre lì davanti. Ma le colline che salgono su dal mare nascondono una rete di sentieri che si intrecciano, ricongiungendosi via via con la direttrice principale del sentiero che da Portiglioni conduce a Pian d’Alma, camminando a mezza costa e toccando cala Martina prima e cala Violina poi.

Il giro che abbiamo scelto questa volta è stato tracciato con Orux Maps* e riportato su Google Maps: volendo la traccia gps (.kml) è scaricabile cliccando sull’immagine.

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*I tracciati gps (.gpx o .kml) possono essere registrati con svariate applicazioni per smartphone (nonché con navigatori gps); Orux Maps è gratuito e nella nostra esperienza più che soddisfacente. L’applicazione può essere usata anche off-line, per ridurre il consumo della batteria (rinunciando all’aggiornamento continuo della mappa), ma con localizzatore gps acceso. Le tracce salvate possono poi essere utilizzate sull’applicazione con cui sono state create oppure esportate e caricate su altre, per esempio su Google Maps nel proprio spazio personale: dal menu a sinistra selezionare “le mie mappe” e successivamente “crea mappa”; a questo punto basterà cliccare su “importa” e caricare il file .gpx (o .kml) desiderato per visualizzare la traccia!

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La macchia mediterranea in questo periodo dà forse il meglio di sé: i colori esplodono, per terra e in aria, nei funghi e nelle bacche rossoarancio; il suolo è disseminato di tesori e, complice un sole particolarmente generoso, gli uccellini e le farfalle si esibiscono nelle loro pantomime.

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Ogni passo è una pagina di un libro conosciuto: sfogli e guardi le illustrazioni, una dopo l’altra, e ti compiaci di ritrovarle e riconoscerle. La ghianda del cerro, con il cappuccio irto di spine; le corbezzole, ancora indecise se virare al rosso o all’arancio; il cisto, adesso senza fiori ma con le foglie verdi e polpose che sembrano di velluto.

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E all’improvviso un frullio, un cespuglio che si anima e una vocina sottile: è lui, piccino piccino, con la sue “cresta” gialla che ne reclama la presenza. Fruga tra bacche e semini di chissà cosa, saltella e per qualche minuto si pavoneggia, giusto il tempo di due o tre scatti.

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Una femmina di Regulus regulus

È il regolo, uno dei due uccellini più piccoli d’Europa assieme al Fiorrancino (pesa cinque grammi!). Il suo nome in latino significa “piccolo re”, e deriva proprio dalla corona dorata – nelle femmine – o arancione –  nei maschi -, che porta in testa; si nutre di insetti e larve e nidifica prevalentemente nei boschi di conifere. Si può facilmente osservare da noi tra settembre e marzo.

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Il regolo su un ramo di Dittrichia viscosa

Tutte queste cose le sapremo sapremo soltanto dopo, una volta tornati a casa, al momento di rimettere ordine nelle emozioni e nelle immagini che questa bella passeggiata d’autunno ci ha lasciato.

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Allora ciao, regolo. Piacere di aver fatto la tua conoscenza!

L’Oasi WWF di Orbetello

Un monte, l’Argentario, in mezzo al mare; due sottili strisce di terra, i tomboli, che lo raccordano con la linea di costa; e una laguna, abbracciata e protetta da questa buffa protrusione della costa. Sono questi i tre elementi che danno vita ad un ecosistema straordinario, quello della Laguna di Orbetello, non a caso sede di una delle più antiche riserve WWF insieme a quella del lago di Burano, situato pochi chilometri più a sud.

La laguna delimitata a ponente dal tombolo della Giannella e a levante da quello della Feniglia

La laguna delimitata a ponente dal tombolo della Giannella e a levante da quello della Feniglia

La riserva naturale si annida in una articolata propaggine della laguna di ponente (in verde nella mappa); fondata già nel 1971, oggi ospita 257 specie di uccelli tra migratori e stanziali e moltissime specie di pesci.

Il percorso si articola in tre diversi “settori”: la stazione della Giannella, il percorso ornitologico e quello botanico. Nel primo, con accesso libero e gratuito dal tombolo della Giannella, si trovano il Centro di Educazione Ambientale, ospitato all’interno di un casale spagnolo del ‘600, un capanno per l’osservazione dell’avifauna e il “Giardino delle Farfalle”, un’area a giardino con pannellistica sulla flora locale.

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Il percorso ornitologico, con ingresso a pagamento (6 euro) si snoda lungo il bordo della laguna con ben nove capanni di osservazione; è aperto da 1 settembre al 30 aprile nel fine settimana, dalle 9.30 alle 15. Per giungervi si esce al km 148 della s.s. 1 Aurelia, seguendo le indicazioni WWF.

Il punto informazioni WWF all'inizio del percorso

Il punto informazioni WWF all’inizio del percorso

I capanni si nascondono sul limitare del canneto, dove la vegetazione palustre e la salicornia cedono lo spazio all’acqua salmastra. Tra le evanescenti macchie rosa dei fenicotteri, che qui giungono dalla Camargue per trascorrere i mesi invernali e si mantengono sempre a ragguardevole distanza dalla riva, le specie più facili da avvistare sono gli aironi, il martin pescatore, che con i suoi guizzi improvvisi si beffa dell’obiettivo, e i rapaci, pazientemente in cerca di prede su cui piombare dall’alto.

 In primo piano una femmina di Albanella minore (Circus pygargus); sullo sfondo fenicotteri e un airone bianco maggiore.

In primo piano una femmina di Albanella minore (Circus pygargus); sullo sfondo fenicotteri e un airone bianco maggiore.

Recentemente nell’area è stato reintrodotto anche l’Ibis eremita, che non abbiamo avuto la fortuna di avvistare, una specie quasi estinta in Europa per la quale è stato avviato dal WWF un progetto di conservazione e ripopolamento. Dal 2012 le coppie hanno iniziato a riprodursi e tornano ogni anno a popolare la laguna, oltrepassando le Alpi e la Laguna Veneta, per trascorrervi l’inverno.

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Il chiurlo (Numenius arquata)

Durante la nostra visita abbiamo avuto modo di osservare da vicino il chiurlo, un limicolo (il più grande d’Europa!) dall’inconfondibile becco ricurvo atto a sondare il basso fondale in cerca di cibo.

Un esemplare di airone bianco maggiore accanto a un giovane di airone grigio

Un esemplare di airone bianco maggiore accanto a un giovane di airone grigio

Il terzo percorso (indicazioni per Bosco Patanella), il cui accesso è situato poco più avanti dell’ingresso all’Oasi, è anch’esso gratuito e consente una rilassante passeggiata attraverso il bosco di pini e sughere che lambisce le rive della laguna. Il sottobosco, costituito da macchia mediterranea, è ricchissimo di funghi.

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Il sentiero nel bosco Patanella

Ai lati del sentiero, tra le foglie secche o sui ceppi dei tronchi abbattuti, chiazze gialle, purpuree o verdine  tradiscono il fermento incessante della terra, che sfugge ai sensi e che l’ospite occasionale del bosco può soltanto intuire…

funghi

Da sin., Gymnopilus spectabilis, una russola e una amanita